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lunedì 2 giugno 2008

Caro Marco...

Caro Marco,

il 99mo Diro d'Italia è finito questo pomeriggio. Io ho guardato l'ultima tappa in TV: una cronometro di una trentina di chilometri, che ha portato la carovana rosa a Milano, sotto un cielo lattiginoso che faceva quasi sentire la sua afa anche dall'altra parte del televisore.

Confesso che ormai da qualche anno seguo la corsa rosa con meno entusiasmo. E anche il Tour de France. E anche tutto il ciclismo in generale. E si, che potrei ancora definirmi un appassionato di questo sport. Di bravi ciclisti, di campioni in grado di rendere queste gare interessanti ce ne sono in grand quantità. Ma c'è qualcosa che manca, qualcosa che forse non saprei nemmeno definire, ma se ci dovessi provare...


Se ci dovessi provare direi che mancano gli eroi. Manchi tu, Marco, l'ultimo della stirpe dei Coppi e dei Bartali, dei Magni, dei Gimondi e - perché no - dei Malabrocca. Manca l'uomo che ha il guizzo, l'uomo che si spende, l'uomo che attacca, l'uomo che scala e che sale verso l'alto, quasi volasse. Manca chi regala i sogni al pubblico e lo tiene incollato alla TV, manca chi regala le imprese, manca chi mi fa sembrare divertente passare ore e ore a pedalare in salita. Pensa che siamo in un periodo talmente triste che il Tour de France è stato vinto per 5 volte da uno che fa solo una corsa all'anno.
Mancano quelli come te, Marco, che te ne sei andato troppo presto, in mezzo ad accuse infamanti che nessuno è mai riuscito a provare oggettivamente. Ma non è di questo che voglio parlare: non ne ho ne il diritto ne la capacità. Mi fermo alle biciclette, alle ruote, alle strade e alle salite.

E prima di salutarti non posso che pensare al prossimo anno. Il 2009 sarà l'anno del centenario del Giro, un anniversario importante per tutti gli appassionati. Che bella immagine, il numero cento: due bei "zeri" rotondi come le ruote della bici... ma qualcosa mi dice che, senza di te, sarà un cento "strano", a cui mancherà il numero uno.

Ciao Marco.


lunedì 14 gennaio 2008

Torna la maglia nera

La maglia nera, ovvero: il Giro d'Italia visto da dietro. Storie di sudore, di fatica, di gregari che rendono grandi i campioni nell'anonimato, di corridori che lottano contro tutto e tutti per arrivare fino in fondo. Ma anche storie di popolarità, di arti e ingegno, storie capaci di ispirare libri ed anche spettacoli teatrali. La maglia nera, finalmente, torna al Giro, diventando un numero nero. La motivazione è quella di "valorizzare un ruolo scomodo, ma significativo perché l’ultimo in classica fatica come gli altri o magari di più perché aiuta il suo capitano oppure perché, malconcio, vuol portare ugualmente a termine la corsa". Che dire? Bentornata, Maglia Nera... e speriamo che tu sia capace di riportarci anche un po' di quella poesia capace di rendere il ciclismo ancora più bello...


giovedì 19 luglio 2007

La Maglia Nera


Atto unico.
Un unico attore sul palco.
Scenografia inesistente: solo una strana bicicletta ed una brocca d'acqua.

Questo è "La Maglia Nera", spettacolo teatrale scritto ed interpretato dal bravissimo Matteo Caccia. Un viaggio a tappe - 6, per la precisione - nel mondo del ciclismo d'altri tempi, quello degli eroi e delle imprese, quello dei corridori che andavano alle corse in treno, dormendo lungo i vagoni abbracciati alle loro biciclette, quello di Coppi e Bartali (ma anche quello dell'Italia post-bellica divisa tra PCI e DC, quello della Jugoslavia in cui i ciclisti italiani, oltre a correre in bicicletta, arrotondavano lo stipendio vendendo di contrabbando tutte quelle merci che il regime di Tito aveva vietato, dei ciclisti che per lavoro facevano i muratori o i garzoni di macelleria). Un mondo che oggi potrebbe apparire surreale, che ci viene presentato attraverso gli occhi del grande Luigi Malabrocca, il "Cinese" di Garlasco (scomparso meno di un anno fà), famoso non tanto per le sue doti di ottimo ciclista, ma per essere un abitueé dell'ultimo posto nella classifica del Giro d'Italia, peculiarità che gli permise di costruire la sua popolarità e di prendersi soddisfazioni anche sul piano economico. In particolare, nel giro del 1949 la sua rivalità col muratore vicentino Sante Carollo (scomparso nel 2004) per la corsa all'ultimo posto appassionò l'Italia quanto quella che c'era in testa alla corsa, tra Coppi e Bartali. E chi, come me, ama la bicicletta, non può fare a meno di pensare...


Cosa spinge me e tanti altri cicloamatori del finesettimana a macinare kilometri e kilometri sulle nostre biciclette? L'esigenza di perdere peso e mantenersi in forma? Anche. Ma per una buona fetta di appassionati - chiamateli sognatori o "bambinoni" o come altro volete voi, ma io credo di essere uno di loro - la motivazione è anche un' altra. Quanti di noi, quando affrontano una salita che spezza il fiato, non sentono di avvicinarsi ai propri idoli di infanzia? Non ci sentiamo coriacei come Magni, ostinati come Gimondi, instancabili come Bartali, entusiasti come Pantani? Quando teniamo il passo non ci sentiamo forse in competizione con un cronometro fantasma, come Moser? E quando scattiamo, non sentiamo le nostre gambe esplodere tutta la loro potenza, come facevano quelle di Cipollini? Come? Non ho citato Coppi? No, bè... lui era perfetto, ed io perfetto non mi ci sento mai... Ma in questa nostra imperfezione (chi con troppa panza, chi senza fiato, chi con il dolore ad un ginocchio, chi con la bici troppo pesante o con le ruote sgonfie) ci setiamo come i ciclisti del passato, e affrontiamo la fatica con lo spirito del Pirata: "La fatica in montagna per me è poesia".

Tornando allo spettacolo: se potete andatelo a vedere e lasciatevi emozionare. E se avete la fortuna di poterlo vedere all'aperto (come è capitato a me nella splendida cornice di Piazza Arringo, nell'ambito dell'Ascoli Festival) potreste anche portarvi la bici da casa ed usarla al posto della poltrona. E grazie a Matteo, che ha risvegliato in tutti noi (ad assistere allo spettacolo c'erano diversi miei amici "filosofi" del pedale) il desiderio nascosto di poterci rinchiudere dentro una biglia di plastica, e rimanere lì, per far ridere e sognare i bambini che giocano sulla spiaggia.